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Sul mio lavoro, come su molti altri, si raccolgono pareri discordanti.
C’è chi chiederebbe aiuto allo psicologo per ogni fase di vita o scelta da intraprendere, chi lo rifugge come il peggior nemico, considerandolo un ciarlatano, un mago, un venditore di chiacchiere, uno per chi non ha un buon amico o un familiare con cui sfogarsi.
C’è ancora (ma sono pochi ormai, secondo me) chi reputa lo psicologo una figura per persone fragili, non completamente a posto con la testa.
Tutto questo lo mettiamo in conto e, con un po’ di senso critico e di auto-ironia, magari possiamo ammettere che noi psicologi, a volte, ci mettiamo del nostro affinché la professione venga fraintesa, banalizzata, messa dappertutto con superficialità.
Una volta, in una delle prime interazioni tra mamme, tra un’altalena e uno scivolo al parco, mi fu chiesto: “ Tu che cosa fai?”.
Al mio rispondere: “faccio la psicologa, lavoro….”, mi vedo osservata con sguardo stupito.
Per un attimo, penso che lei trovi interessante il mio racconto, la descrizione di un lavoro che amo profondamente.
Questa mia civetteria viene presto, però, disattesa da una sua constatazione: “ Ah, tu sembri piuttosto normale, di solito gli psicologi sono così strani…..”
Ecco un’altra possibile qualità della categoria professionale a cui appartengo: la stravaganza, l’essere un po’ irrisolti, contorti, a volte goffi…gente strana, appunto.
Con gli anni, ho imparato ad essere meno permalosa e forse anche a prendermi un pò meno sul serio, per cui accetto tutto, soprattutto perché comprendo che è un lavoro “impalpabile”, così come inafferrabili sono spesso per noi i pensieri, le emozioni, la sofferenza…che fluttuano senza accettare facilmente di farsi contenere o spiegare.
C’è, però, una cosa che ancora mi provoca frustrazione, talvolta addirittura rabbia: l’idea dello psicologo “usa e getta”, “dammi un consiglio al volo”, “ interpretami quel sogno”, “del secondo te, perché?”
Spesso vengo fermata al volo, o anche contattata in modo canonico, per soluzioni rapide ad un problema specifico.
Il problema può avere ambiti e sfumature diverse: capricci dei bambini, ansia, problemi a scuola, crisi di coppia, paure improvvise.
E’ difficile non perdere credibilità senza cedere alla tentazione di dare ricette, risposte uguali per tutti, soluzioni veloci e durature nel tempo. E’ impopolare provare a far comprendere che l’apprendimento di tecniche, senza una relazione di cura ben avviata, è spesso solo un esercizio di stile (e, forse, anche di potere…).
Proprio in questo, però, risiede l’idea che ho io di “cosa uno psicologo dovrebbe fare” e del perché
“ serva studiare per essere psicologi”.
Non basta un po’ di buon senso? Non basta un po’ di buon cuore? Non basta offrire una spalla su cui piangere?
Sono tutte cose utili, certamente, ma no, non credo che bastino.

Fare lo psicologo, per me, significa….
Dare ossigeno, spazio, affinché la persona possa, prima di tutto, esistere e raccontarsi, scoprendo la propria unicità.
Dare e darsi tempo per poter rivisitare il passato, a partire dall’oggi, per capire, o meglio“sentire”che ci muoviamo all’interno di storie antiche, che spesso si ripropongono.
Considerare il corpo, la mente e le emozioni come perle preziose di un’unica collana capace di muovere consapevolezza.
Saper custodire le “perle preziose” di un paziente fin quando non è pronto a guardarle, poi a indossarle, poi ancora a decidere cosa farne.
Accogliere i silenzi, senza aver fame di riempirli.
Offrire una guida verso le risorse, le possibilità, le storie che una persona può ancora mettere in gioco, nonostante “il problema”.
Aiutare ad accettare le proprie fragilità, potendole mostrare e non più nascondere.

Lo psicologo, per me, somiglia al lavoro di colui che aiuta a tessere un tappeto prezioso, un pezzo unico, inimitabile per colore e filato.
L’esperto in questione non sono io, anche perché sono parecchio maldestra come tessitrice… L’esperto è la persona che ti si siede davanti, con molti fili colorati, preziosi ma annodati.
Io so solo che ci vuole tempo per trovare nuovi modi per continuare la tessitura ed esorto alla pazienza.
Poi so che qualche nodo non ha mai compromesso la qualità del manufatto, per cui esorto all’accettazione.
Forse immagino anche che non tutti i fili siano stati acquistati insieme, che alcuni siano più datati di altri..per cui chiedo al tessitore di congiungere memoria e cuore.
Ricordo che per ogni cosa che non sia fatta dalle macchine, ci vuole il suo tempo, per cui invito a prendersi lo spazio per raccontare di quel tappeto, sentendone anche il peso.
Talvolta tengo quei fili e tutti i miei pensieri fin quando non vedo una luce negli occhi del tessitore; allora provo a lasciare il testimone…ma sono lì presente, se la fatica è troppa e, cosa ancor più importante, cerco di tenere il nostro spazio lontano dalle aspettative.
Poi, un giorno, e poi un altro e ancora un altro, di quel tappeto si parla sempre meno.
E’ lì, sotto i piedi della persona, tornato al suo posto. A volte si tira un filo, a volte compare una macchia ma il tessitore ci sorride o almeno pensa che sia “il suo tappeto, nonostante le imperfezioni”.
Io accompagno soltanto questo processo, che non è mai uguale, che non ha segreti da rivelare all’istante o soluzioni efficaci ma che, come ogni umana faccenda, ha bisogno di tempo, spazio, aria e calore, sbagli, fiducia e affetto.
E quando tutto ciò è stato tessuto, allora si può anche rispondere ad una domanda al volo, insegnare una tecnica, offrire soluzioni…!

Giulia Lotti
Psicologa- Psicoterapeuta

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