In terapia si crea spesso una sincronia per cui iniziano a circolare pensieri, stati d’animo e immagini che risuonano e si propagano, in un girotondo sempre più ampio e variegato.
Mi succedeva così nei quattro anni di terapia di gruppo, fatta con i miei colleghi prima e amici poi, nel periodo della scuola di specializzazione.
Mi succede ancora oggi nelle ore di terapia: un paziente solleva una riflessione e questa, un pò come fosse un profumo, rimane lì nell’aria all’ora successiva e un altro la respira, e poi ancora…fino a diventare un pensiero che accoglie l’anima e la mente di tutti i viaggianti.
Questa settimana, ha risuonato forte il tema del tempo, sentito dai più giovani come un qualcosa che scorre velocissimo e ti frega, se non ti fai trovare pronto, svelto, lucido, all’altezza delle aspettative.
Nella mia testa, mentre faccio la spesa, saluto persone che aprono varie finestre nei miei ricordi, sventolano, come panni stesi ad asciugare, alcune di queste frasi.
-“Hai presente la pubblicità prima della musica su YouTube? Spesso inizia con una frase, pronunciata alla velocità della luce: devo dirti tutto nei prossimi 10 secondi.
Ecco, a volte, quando incontro qualcuno che mi piace, sento proprio questo. Di dover dire tutto e tirare fuori la parte migliore di me in pochi attimi, perché poi chi mi sta di fronte se ne andrà, sarà magari attratto da un’altra foto, da una nuova storia di Instagram”-.
E ancora, mi viene in mente quando, con un altro giovane paziente, abbiamo dato spazio alla paura che un messaggio vocale, arrivato veloce al suo destinatario, spogliato di occhi, mimica e un respiro che potesse fargli compagnia, attenuandone magari i toni, potesse aver messo una distanza insanabile.
Quegli occhi impauriti, durante la terapia, mi hanno detto ad un certo punto: -“Giulia non so se puoi capire, ma oggi è così: ci si gioca tutto in un attimo e con tanti, forse troppi strumenti…”-.
E’ vero. Realizzo che tutti i miei rapporti profondi sono nati, in effetti, corredati di contatto umano, cartaceo, oculare; insomma con una persona lì davanti con cui si litigava, ci si spiegava, ci si amava, ai ritmi che, più o meno, dettavamo noi.
Realizzo anche che la differenza tra me e questi giovani pazienti è soltanto di 15 anni.
Che salto enorme, in così poco tempo, abbiamo fatto nel modo in cui si costruiscono i rapporti, si costruisce noi stessi!
Del resto, tra i miei figli ci sono solo 4 anni di differenza, eppure mi accorgo che la velocità dei tempi moderni rende sempre più difficile alle nuove generazioni farsi leggere un libro in santa pace, andare in bici senza pensare a cosa verrà dopo, leccare un gelato senza preoccuparsi di cosa si mangerà a cena.
Velocità, capacità di impiegare il cervello in molteplici attività contemporaneamente, dicono.
Anestesia emotiva, incapacità di “stare”, di farsi compagnia, di tollerare il poco buono e di sentire pienamente il buono, penso io.
E poi mi viene in mente l’estate passata.
I quasi 5 anni di convenzione come libero professionista per il Ministero di Giustizia stavano per terminare. Avrei dovuto passare le ferie a studiare per il nuovo concorso. E così ho fatto, cercando di essere mamma di giorno, tra castelli di sabbia, bagni al mare e gelati e lavoratrice dopo cena quando, messi a letto i bambini, scendevo nel giardino del residence dove eravamo, per studiare fino a tardi.
Dovevamo rifare tutti il colloquio, che avessimo già lavorato in istituti penitenziari o no non faceva la differenza. Nessun punteggio in più per l’esperienza pregressa.
E va bene, mi dicevo…è per dare a tutti, in questo tempo di precarietà lavorativa, una chance di poter esercitare la propria professione. Se non giusto, mi pareva almeno comprensibile.
Faccio il colloquio. Nulla da eccepire. “Complimenti dottoressa – mi viene detto-, ha fatto davvero un buon orale”.
Ingenua, mi lascio cullare da quella soddisfazione, che mi ripaga, in parte, dello “sdoppiamento di personalità” vissuto durante le ferie. Mi scorrono davanti le immagini di me, al settimo mese di gravidanza, a fare ancora colloqui, relazioni e gruppi in carcere perché così mi pareva giusto.
Poi alle domeniche passate a mettere a punto il necessario per la presentazione della mostra del percorso di espressività artistica, un altro giorno di festa sottratto ai miei figli per correggere una relazione e pensavo: questo tempo verrà ripagato.
Poi escono le graduatorie…sono più in basso, e di un bel pò, rispetto al bando precedente, di 5 anni prima, quando ancora negli istituti non avevo lavorato.
Strano, il colloquio era andato molto bene, l’esperienza maturata dove avevo lavorato pareva contrassegnata da un buon rimando.
Eppure non sarei potuta rimanere lì, casomai andare all’isola d’Elba, passare lì parte della settimana, perdere così il resto del mio lavoro in libera professione, vedere poco i miei figli, una dei quali era la stessa portata in grembo per tutta la gravidanza mentre lavoravo in una Casa di Reclusione.
Si aprono di fronte a me due strade e, sorrido mentre lo scrivo, le ho percorse entrambe ma sono felice di essere, adesso, con tutta me stessa sulla seconda.
La prima è fatta di rabbia, polemiche più o meno giuste, domande, richieste di chiarimenti, speranza di ottenere, nel tempo, una sede lavorativa più vicina.
La seconda, fatta dal respirare il senso di libertà provato nell’avvertire che quel tempo non era più il mio.
La consapevolezza che se un treno va troppo veloce o in una direzione sbagliata, possiamo quasi sempre dirci di scendere.
Quando io sono scesa da quel treno, per esempio, mi sono sentita non poco smarrita. Mi sembrava di aver dato tutta me stessa a luoghi e a meccanismi che non so quanto, a conti fatti, facessero per me.
Poi, però, ho fatto spazio alle tante cose che, da quel treno in corsa, non avevo visto: dalle pareti azzurre del mio studio, ai disegni e alle frasi che ci lasciano sopra i miei pazienti, all’amore per la scrittura, per i libri, per le torte, agli occhi dei miei figli, in cui mi perdo, ogni volta, come il viaggio più prezioso che la vita mi abbia offerto di fare.
Per cui, giovani e meno giovani pazienti, a voi auguro di sentire se il tempo in cui siete stringe, soffoca o appare estremamente dilatato. E di dare credito a questo vostro sentire, trovando il vostro passo.
A camminare al giusto ritmo, infatti, si respira a pieni polmoni e si vedono cose che riempiono il cuore.
Giulia Lotti
Psicologa-Psicoterapeuta